Fornaci della terracotta dell'Impruneta

Mario Mariani

Via Capello 29

Questa piccola fornace è da non perdere. Si può vedere Mario Mariani fare rigorosamente a mano i suoi enormi vasi da giardino. Con un po' di fortuna lo vedrete accendere la sua fornace a legna, identica a quelle usate ai tempi dei romani. Non usa termometri, stima la temperatura secondo il colore bianco dei vasi caldissimi. Mario ha applicato questa tecnica tradizionale per produrre le tegole che servirono per il restauro di alcune famose chiese toscane.

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Fornaciai e terrecotte dell'Impruneta

Le fornaci del Medioevo

La crescita economica e demografica, determinatasi nelle campagne fiorentine già nel secolo precedente, creò evidentemente le premesse per lo sviluppo di quella che sarebbe stata la principale attività manifatturiera degli abitanti della Lega di Santa Maria all’Impruneta, e cioè lo sfruttamento delle argille locali per la fabbricazione di manufatti vascolari e vari tipi di laterizi.

É bene rimarcare che la produzione ceramica imprunetina seguì sin dalle origini una peculiare linea evolutiva, la quale non trova riscontri nel panorama regionale. La caduta dell'impero romano e la conseguente decadenza economica e civile dell'Italia, avevano infatti trascinato con sé le attività fittili, deprimendole a tal punto che gran parte dei laterizi restituiti dai contesti archeologici altomedievali sono rappresentati da manufatti più antichi, strappati agli edifici di epoca precedente con una capillare attività di spoliazione.

La ripresa della fabbricazione di terrecotte registratasi all'inizio del Basso Medioevo si concretò indubbiamente in una nuova diffusione delle fornaci nelle campagne toscane - ed in particolare nell'area fiorentina, la quale andava rapidamente popolandosi, grazie anche all'apporto di correnti migratorie interne - ma non era affatto scontato che tali, rinate attività, si ponessero a sfruttare in maniera sistematica, come invece avvenne all'Impruneta, importanti giacimenti argillosi.

Molte di queste imprese, infatti, si accontentavano di sporadici affioramenti, esauriti i quali il rustico forno costruito presso di essi veniva puntualmente abbandonato (basta vedere di quanti toponimi “fornace” è punteggiata, senza la presenza di edifici visibili, la campagna toscana): un tale modello “provvisorio” per le attività fittili legate alla terracotta affondava del resto le proprie radici nella più lontana antichità, ed in Toscana trova ampia esemplificazione nel periodo romano.

Frequente, inoltre, era l'idea di porre fornaci da laterizi nei pressi di grandi costruzioni, allo scopo di utilizzarle quando era necessario intraprendere opere di manutenzione delle medesime, impiegandovi il contadiname libero dai lavori agricoli e la manodopera non specializzata in genere, posta temporaneamente alle dipendenze di qualche fornaciaio di professione.

Una più stabile tradizione produttiva nel settore della terracotta si sviluppò in epoca medievale lungo i corsi d'acqua, per il fatto che la materia prima argillosa poteva essere estratta dall'alveo dei fiumi o ricavata dagli accumuli di limo che si depositavano lungo le rive: è evidente, però, come la casualità e la mescolanza caotica degli apporti minerali impedisse di ottenere una qualità del prodotto (sotto il profilo della plasticità, della durevolezza, etc.) paragonabile a quella consentita dallo sfruttamento di un omogeneo bacino sedimentario.

É dunque proprio in ragione dell’elevata qualità dei loro fittili che i fornaciai dell’Impruneta hanno potuto sviluppare nel tempo una professionalità che trova rari riscontri nel panorama nazionale, affermandosi ben presto come i più importanti fabbricanti di terracotta della Toscana medievale e moderna.

L'arte dei "mezzinai ed orciai"

Già nel corso del XIII secolo si può affermare che il cotto imprunetino non avesse più i caratteri tipici di un’attività secondaria e dispersa nelle campagne, del tipo di quelle disopra descritte, visto che il 23 marzo del 1309 (1308 nello stile fiorentino ab incarnatione) - un primato assoluto per l'Italia - i suoi “mezzinai e orciai” (“artis mezzinariorum et urceorum plebatus Sancte Marie Impinete”) si riunirono per eleggere Ghettino di Ventura del popolo di Sant’Ilario a Potigliolo, “magistrum dicte artis” in qualità di rettore e sindaco della medesima, affiancandogli come consiglieri Buto di Nencino del popolo di Santa Maria all’Impruneta e Bartolomeo di Peruzzo di San Cristoforo di Strada.

I maestri in tal modo eletti dall’assemblea degli artefici - la quale comprendeva un vasaio di Pancole, sei di Potigliolo, cinque di Strada e undici di Impruneta, per un totale di ventritré artefici “dicentes se esse duas partes et ultra magistrorum dicte artis dicti plebatus” – intendevano procedere alla stesura di uno specifico statuto (“ad faciendum statuta et ordinamenta per eos pro dicta arte condenda”), da far successivamente approvare al comune di Firenze (“aprobari per Communem Florentie seu per officiales dicti Communis”).

Non sapremo mai, con ogni probabilità, se questo tentativo - che il notaio ser Benintendi di Guittone, autore del rogito, pensò di non scoraggiare - abbia avuto un qualche seguito: conoscendo la propensione dei governanti fiorentini a non moltiplicare il quadro corporativo che stava alla base del loro ordinamento comunale, nonché la consolidata tendenza a controllare le attività produttive del Contado, inserendole nel novero delle Arti cittadine già affermate, lo riteniamo piuttosto improbabile. Ad onta del suo mancato perfezionamento normativo, però, questo documento riveste grande importanza sotto il profilo storico generale, in quanto mostra come la diffusione delle attività economiche comitatine nel corso del XIII secolo avesse creato punti di dinamismo che la Città gigliata, per evitare di accendere conflitti giurisdizionali, dovette in qualche modo inserire nei propri ordinamenti; esso, inoltre, presenta un grande interesse specifico per la conoscenza delle origini e dei “caratteri originari” della produzione fittile nel territorio imprunetino.

Da esso, infatti, si può dedurre come le attività ceramistiche fossero radicate in prevalenza nel popolo di Santa Maria (47%), pur essendo diffuse anche in Potigliolo e Strada, località che, unite assieme, pareggiavano il numero dei fornaciai imprunetini, mentre un solo ceramista risiedeva nel popolo di Santa Cristina di Pancole. Sin dalle origini, inoltre, questi vasai dedicavano tanto alla fabbricazione di brocche per il trasporto e la conservazione dell’acqua (“mezzine”), quanto alla produzione di più grandi contenitori per lo stoccaggio di liquidi e aridi (“orci”); anche se non sono citati nei documenti, è inoltre da ritenere che nelle medesime fornaci si cuocessero in abbondanza mattoni, mezzane, pianelle, doccioni, e quant’altro atteneva ai laterizi da costruzione.

É infine assai interessante notare come, pur in assenza di una silloge statutaria validamente approvata, l’arte dei “mezzinai ed orciai” del piviere di Santa Maria all’Impruneta operasse – probabilmente sulla scorta di regole consuetudinarie – secondo i dettami delle coeve corporazioni di arti e mestieri legalmente costituite.

I suoi componenti, infatti, si chiamavano “maestri”, e ciò suggerisce il fatto che in tal modo si intendesse seguire le regole corporative poste a fondamento dell’attività economica, controllando in particolare le forme di esercizio della medesima (e quindi la qualità, i “segreti” della lavorazione etc.), alle quali si pensava avrebbe potuto nuocere un’indiscriminata concorrenza.
L’arte aveva inoltre un rettore e sindaco coadiuvato da due consiglieri, ed un consiglio generale che, nel caso di elezioni e modifiche ordinamentali, era validamente convocato solo in presenza di almeno i tre quarti del “corpo dell’Arte”.

Le fornaci tra XIV e XV secolo

Purtroppo la ricerca storica non è al momento in grado di seguire il probabile, successivo sviluppo delle attività imprunetine nel corso del XIV secolo, allargando il panorama che lascia intravedere il documento notarile del 1309. Alla carenza di informazioni relative a quel secolo difficile, per il quale ci è rimasto il solo nome di Francesco “di monna Bice”, che nel 1362 fornisce sei orci nuovi da olio al monastero fiorentino di Santa Trinita, corrisponde però la sempre più vasta fama dell'immagine della Madonna che si conservava nella chiesa-madre, tanto che la pieve d'Impruneta assunse, nel corso del Trecento, in un santuario al quale i fiorentini si abituano a ricorrere in diverse occasioni della loro storia – iniziando dalla disastrosa alluvione del 1333 e dal grande flagello pestifero del 1348 - per allontanare, grazie all'immagine miracolosa che vi si conserva, le sventure dalla loro città.
Nell’estimo del 1401 relativo al popolo di Santa Maria si ritrovano poi i nomi Bartolo di Giovanni, il quale possiede una casa con “fornace da orcia” in località Montecchio, di Michele di Piero, che opera nel medesimo luogo, e di Giovanni di Gherardo, il quale possiede invece la sua struttura produttiva “da orcia” nel luogo significativamente detto Doglia. Per il modesto numero di fornaciai che contiene, questo documento sembra suggerire una qualche contrazione delle attività fittili imprunetine, che d’altronde sarebbe ben spiegabile con la crisi economica e demografica del periodo 1340-1454 circa: l’evidente trascuratezza nell’indicare il mestiere dei tassati nell’estimo e la mancanza di notizie per gli altri popoli che costituivano la Lega – ma nei quali la concentrazione delle attività era minore – ostacola tuttavia l’espressione di un giudizio fondato sulle vicende di quest’epoca.

Lo studio dei successivi catasti quattrocenteschi, del resto, contraddice una simile ipotesi, anche se occorre dire che le registrazioni in essi contenute attengono spesso a frazioni, e non all’interezza della proprietà, il che non rende agevole stabilire il numero delle unità produttive effettivamente in attività nei diversi periodi. Il numero dei possessori di fornace del popolo di Santa Maria Impruneta restò infatti nella prima metà del XV secolo sempre oltre la decina di unità (16 nel 1427; 15 nel 1429 e nel 1435; 11 nel 1451). Se, inoltre, nel 1458 e 1469 le iscrizioni catastali delle fornaci si riducono addirittura in maniera drastica (soltanto cinque e tre dichiarazioni rispettivamente), questi dati debbono considerarsi incompleti, visto che nel 1480 e nel 1487 il numero dei fornaciai proprietari risale a dodici. Pur se il dato congiunturale è per adesso di problematica valutazione, si può perciò affermare che nel Tre e Quattrocento restarono mediamente in attività nel centro principale di Impruneta almeno una decina di unità produttive.

Nel corso della prima metà del XV secolo, del resto, si moltiplicano i documenti relativi a forniture effettuate dai fornaciai imprunetini agli ospedali ed ai conventi della città di Firenze; in molti casi, come avviene per gli altri centri di produzione ceramica del Contado, questi rapporti commerciali avvengono per tramite di parenti o soci di ceramisti residenti all’Impruneta, i quali si trasferiscono nella Dominante per esercitarvi il mestiere di “stovigliaio”, cioè di rivenditore di generi fittili. Tra questi Cristofano di Bernardo, citato nei conti di Santa Maria Nuova dal 1400 al 1455, Maffio di Niccolò, che invia al medesimo nosocomio laterizi nel 1414, e Fruosino di Niccolò (forse nipote del precedente), il quale vende “vasi di terra da bucato” e laterizi all’Ospedale degli Innocenti ed al monastero dell’Annunziata tra il 1448 ed il 1469. Anche un “Pippo istovigliaio”, fornendo al monastero di San Luca “mezzine”, catini ed orci, oltre a varie stoviglie, mostra di essere stabilmente collegato, per la tipologia dei generi fittili che commercia, con i fornaciai del suo luogo d’origine.

Non mancano, d’altronde, esempi di “stovigliai” imprunetini i quali, pur esercitando la loro attività mercantile in Firenze, possiedono un’unità produttiva nel luogo d’origine: tra questi Matteo di Meo di Matteo, documentato sin dal 1427, che ha una casa con “fornace e piazza” nel popolo di Santa Maria. Ancora più significativo del rapporto che lega un’attività di rivenditore esercitata in città con l’esercizio del mestiere di terracottaio è la vicenda di Paolo di Francesco di Francesco Casini e di suo fratello Tobia: essi, infatti, possiedono una fornace “con portichi da fare embrici” a Santa Maria all’Impruneta, ma dal 1429 al 1442, qualificandosi anche come “stovigliai”, vendono “mezzine”, catini ed embrici all’Ospedale di Santa Maria Nuova, non disdegnando di accompagnare le loro forniture di terrecotte anche con pentolame da cucina.

Con la ripresa economica che prese l’avvio poco oltre la metà del Quattrocento venne a moltiplicarsi il numero dei fornaciai imprunetini impegnati a rifornire – questa volta senza l’intermediazione commerciale - il mercato fiorentino: tra questi Antonio di Cecco, documentato dal 1472 al 1475, il quale fornisce “mezzine”, catini ed orci ai conventi dell’Annunziata e di Sant’Ambrogio, e Bernardo di Matteo, documentato nel 1475. Un capitolo a parte dei sempre più fitti legami che uniscono i fornaciai imprunetini ad enti ed istituzioni di Firenze nel corso del XV secolo riguarda il figlio del già citato Paolo di Francesco Casini, Bernardo, e suo fratello Francesco, i quali, tra il 1472 ed il 1496, furono “fornaciai di casa” dell’Ospedale di Santa Maria Nuova: essi inviarono in quel periodo al grande nosocomio fiorentino grandi quantità di “mezzine” (tra le quali alcune della tenuta di mezzo barile – evidentemente da olio - pari a litri 16,71), catini, orci ed anche laterizi.

Lo sviluppo delle attività fittili dell’Impruneta nel corso del XV secolo trova anche attestazione nel fenomeno dell’emigrazione degli artefici dal luogo d’origine, tipico delle vicende storiche che riguardano i maggiori centri di fabbrica in età preindustriale; essendo poco indagato, questo fenomeno mostra per il momento un’emigrazione imprunetina indirizzata nella sola città di San Gimignano, ma ciò è senza dubbio da imputare allo stato del tutto occasionale delle ricerche. In San Gimignano, comunque, la presenza di “un tal Pieri dell’Impruneta” fu segnalata dal Pecori, secondo il quale questo fornaciaio tentò di avviare nel 1454, nei possedimenti della pieve locale, un’attività ceramistica. Le indagini archivistiche promosse successivamente da Galeazzo Cora mostrano inoltre nella medesima San Gimignano la presenza dell’imprunetino Giovanni di Francesco, che gestì la fornace da terrecotte di proprietà del locale ospedale di Santa Fina ad iniziare dal 1474; dal libro di amministrazione relativo si apprende che Giovanni produceva catini, mezzine, conche grandi e piccole da bucato, orci da olio e vari tipi di laterizi.

Tra Cinquecento e Seicento

Nel XVI secolo il rapporto tra il mercato fiorentino ed i fornaciai dell’Impruneta si fece sempre più importante; abbiamo così notizie di ceramisti che forniscono l’ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova di brocche per l’acqua (1501, Antonio di Giovanni “5 mezine grandi…23 mezine mezane”; 1501, Naldino di Giovanni “13 mezine col manicho”; Andrea di Stefano “7 mezine per riempire le pentole”), talvolta assieme ad orci di piccola dimensione e catini (1501, Naldino di Giovanni “2 catini grandi e 5 orcetti); non mancano, inoltre, fornaciai che inviano al nosocomio generi vascolari e laterizi (1511, Mariotto di Frosino Berrini e suo figlio Frosino “3 vasi di terra e embrici”).

Si afferma comunque nel corso del Cinquecento la specializzazione degli imprunetini nella fabbricazione degli orci per lo stoccaggio dell’olio e delle sostanze liquide o solide in genere, anche di discrete proporzioni, i quali non mancano di comparire nei conti del grande ospedale fiorentino (1501, Luigi di Casino “2 vassi di tenuta di barili 10 (!)”; 1522, Benedetto di Bernardo “4 dogli per tenere aqua istilata”; 1548, Niccolò di Nofri “per orcia 14”); anche le conche venivano richieste dal nosocomio ai fornaciai dell’Impruneta per destinarle sia all’uso interno (1588, Lorenzo di Giuliano Vantini “dua vasi per fare bucati per le nostre monache”), che al giardino (1589, Bastiano di Giovanni “10 vasi da limoni, per il giardino”; 1597, Francesco d’Antonio “8 vasi da melaranci e limoni”).

Santa Maria Nuova non disdegnava infine di rifornirsi presso i medesimi ceramisti anche per contenitori, probabilmente grezzi od invetriati, da utilizzare nella sua grande speziaria (1519, Piero d’Andrea “2 vasi da tenere el miele”; 1520, Benedetto di Bernardo “8 vasi per tenere latovari”).

La consistente produzione degli orci imprunetini permetteva anche ai maestri muratori fiorentini di approvvigionarsi presso quelle fornaci di scarti di lavorazione, i quali consentivano di riempire le volte con materiali relativamente leggeri, ma in grado, per la loro struttura tondeggiante, di sorreggere i pavimenti. Già nel 1472 Antonio di Cecco aveva fornito al convento di Sant’Ambrogio di Firenze “30 orcia rotte per la volta”, mentre un documento relativo alla costruzione di una casa dei Salviati in via del Cocomero in Firenze mostra come il 2 luglio del 1524 un altro fornaciaio imprunetino, Zanobi d’Antonio, abbia fornito per questo scopo “18 orccia rotte aute da lui, per mettere ne’ pié della volta”.

Facendosi sempre più marginale la produzione di manufatti utilitari a destinazione domestica (“mezzine” e catini), è del resto comprensibile come le fornaci imprunetine siano venute dedicandosi con sempre maggiore impegno, durante l’Età Moderna, alla fabbricazione di orci e conche.

L’evoluzione dell’agricoltura in Toscana, ed in particolare la diffusione dell’olivicoltura, che allora superò nettamente quella medievale, grazie anche all’espandersi del sistema mezzadrile e fattorile, innescò inoltre un processo di mutamento morfologico degli orci, ora indirizzati sempre più massicciamente allo stoccaggio dell’olio d’oliva.

La necessità di conservare, spesso nelle grandi orciaie delle fattorie, maggiori quantità di sostanze olearie, determinò infatti un rapido incremento dimensionale degli orci toscani, il quale fu realizzato sia attraverso l’aumento dell’altezza media dei manufatti (dai 60-80 centimetri del Quattrocento agli oltre 100 del secolo seguente), sia – ed in particolar modo – con un cospicuo allargamento del loro diametro. Tra Cinque e Seicento l’orcio da olio imprunetino finì così per assumere una fisionomia sempre più gonfia e panciuta, tendendo ad allargare progressivamente la propria circonferenza; il punto di massima espansione delle pareti restò però sempre collocato ben oltre la metà dell’altezza, in maniera tale da creare una sorta di “spalla”, e ciò conferì ancora per molto tempo a questi contenitori quell’aspetto relativamente slanciato che, invece, essi persero tra Sette ed Ottocento, allorquando venne affermandosi una fisionomia globulare.

Pur avendo ormai assunto dimensioni di tutto rispetto, che ne rendevano problematico il rovesciamento – tanto che per svuotarli essi furono muniti di appositi fori, praticati nella parte inferiore della parete – gli orci imprunetini (e toscani in genere) mantennero sino alla fine del Seicento una bocca a versatoio, in tutto simile a quella delle antiche brocche da acqua (le “mezzine”) medievali.

Le famiglie dei fornaciai

Un primo tentativo di ricostruzione delle famiglie dei fornaciai dell’Impruneta, effettuato alcuni anni addietro, ha evidenziato il precoce formarsi di vere e proprie dinastie di ceramisti, che progressivamente si aggiunsero a quelle dei Casini, dei Boncioli e dei Brandi, per le quali possediamo documenti già collocabili nel XIV e XV secolo; in molti casi si nota un’espansione per rami diversi dei medesimi nuclei familiari, che la ricerca storica potrà forse in futuro ricondurre ad un unico ceppo d’origine. E’ così che nel Cinquecento compaiono le prime cognominazioni relative ai Cicali, ai Codacci, ai Falciani (i più numerosi in senso assoluto) ed ai Vantini, mentre nel secolo seguente si sviluppano le famiglie dei Lottini, dei Poggi, degli Scacciati, dei Soderi e dei Vanni.

Nel Settecento si possono infine seguire le vicende relative agli Agresti, ai Montauti-Danti ed ai Ricceri.

Tra Sei e Settecento, inoltre, i fornaciai dell’Impruneta avevano saputo diversificare la loro attività, tanto da riuscire, con o senza l’ausilio dell’ingobbio, a porre una verniciatura piombica su quell’argilla, così durevole, ma assai riottosa ad ogni genere di rivestimento. La maestria di questi ceramisti non ebbe eguali, in quel periodo, nella fabbricazione di manufatti dalle imponenti dimensioni, fossero essi grezzi o verniciati. Non pochi di questi fittili monumentali si conservano ancora oggi presso le residenze della nobiltà e della stessa Corte granducale, ove non di rado troneggiano nei giardini, sotto le logge o sugli scaloni di rappresentanza; essi si mostrano anche nelle antiche dotazioni degli ospedali della Toscana, come il Serristori di Figline o il Santa Maria della Scala di Siena.

Biblioteca Laurenziana, Firenze

La biblioteca fu fondata da Cosimo il Vecchio, della famiglia dei Medici, e fu considerevolmente ampliata dal figlio Piero e dal nipote Lorenzo (il Magnifico). Dopo una serie di incidenti (compreso lo spostamento dell'intera collezione a Roma) fu un Papa mediceo, Clemente VII, che incaricò Michelangelo di disegnare e di costruire la biblioteca attuale. I lavori iniziarono nel 1524 sotto la direzione di Michelangelo, e furono completati dai suoi discepoli compresi Giorgio Vasari e Bartolomeo Ammannati. Il vestibolo della biblioteca, disegnato da Michelangelo, è considerato uno dei primi esempi dell'architettura manieristica, e un precursore del Barocco. E' molto probabile che i mattoni di terracotta rossa utilizzati per il pavimento della biblitoeca arrivino da Impruneta. I mattoni bianchi utilizzati per il disegno derivano probabilmente da Montelupo Fiorentino, un altro centro importante della ceramica a Firenze.